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Franco Califano era politicamente scorrettissimo

Maschilista e misogino? Forse è tutto relativo. Di sicuro c'è che il Califfo stava molto avanti.
Franco Califano era politicamente scorrettissimo

“Non sono un re, ma un frutto di periferia e se parlo io dico verità, non conosco ipocrisia”: era il 1973 e Franco Califano, all’epoca ancora poco conosciuto al grande pubblico, parlava di sé stesso così, in una canzone – “Tua madre” – del suo secondo album “L’evidenza dell’autunno”. Artista fuori dagli schemi, playboy romantico e mascalzone, autore ironico, disincantato e malinconico, e mille altre cose ancora: sul cantautore romano, negli anni, è stato detto e scritto di tutto. Ma l’essenza di quello che è stato – e ha rappresentato – per la canzone italiana, in fondo, è tutta racchiusa in quei due versi scritti dal Califfo mentre il suo nome cominciava a circolare grazie ai successi scritti per Bruno Martino, Ornella Vanoni, Mina e Mia Martini. Scomodo, libertario e anticonformista: Franco Califano non faceva nulla per nascondere il suo essere politicamente scorretto, scorrettissimo. Tutt’altro: ostentava, sul palco e nella vita di tutti i giorni, tra eccessi e frequentazioni ambigue (come quelle con i personaggi della malavita milanese di Turatello e Vallanzasca o di quella romana della banda della Magliana – nel ‘77 per la copertina dell’album “Tutto il resto è noia”, contenente l’omonimo successo, oltre un milione di copie vendute, si fece fotografare con in braccio Eros Turatello, il figlio del boss della malavita milanese Francis), la sua cattiva condotta.

Califano nell'era del politically correct

Chissà se oggi, nell’era del politically correct, un personaggio come Franco Califano potrebbe risultare tutto sommato simpatico e affascinante al grande pubblico come lo è stato, nel corso della sua intera vita, l’autore di “Minuetto”, “La musica è finita”, “Una ragione di più”, “E la chiamano estate”, “La mia libertà” e la stessa “Tutto il resto è noia”, per citare solamente alcuni dei piccoli grandi capolavori che il Califfo ha consegnato alla storia, portando nella canzone italiana la mitologia della strada anni prima dei luoghi comuni messi in versi da trapper e rapper di periferia. Le radio passerebbero le sue canzoni? La tv lo cercherebbe? Difficile rispondere oggi, a quasi dieci anni dalla scomparsa del cantautore (l’anniversario cadrà il prossimo anno), a queste domande. D’altronde già in alcune interviste concesse nei suoi ultimi anni di vita Califano raccontò di aver pagato lo scotto della sua coerenza e di aver avuto, per questo, meno palchi di quelli che meritava. Fu tradito anche dalla sua Roma, che tante volte cantò. Nel 2007, dopo che la sua popolarità era stata ravvivata dalla partecipazione al Festival di Sanremo con “Non escludo il ritorno” (la canzone-manifesto scritta insieme a Federico Zampaglione, il cui titolo sarebbe diventato, dopo la scomparsa, l’emblematico epitaffio inciso sulla lapide della sua tomba) e al reality show “Music Farm”, in un’intervista concessa a Il Giornale il cantautore - che in gioventù fu vicino agli ambienti del Msi - raccontò di non sentirsi coccolato a sufficienza dall’allora amministrazione capitolina: “In tutta l’estate ho più di quaranta concerti in giro per l’Italia ma nessuno qui. Non mi hanno voluto, punto e basta. Se i romani nei prossimi mesi vogliono sentirmi cantare, devono prendere la macchina e spostarsi. Per i soliti noti lo spazio c’è sempre. [I nomi] li sapete tutti: Gino Paoli, i Nomadi, Roberto Vecchioni, insomma tutti i comunisti o presunti tali che poi hanno la villa in Kenya o chissà dove alla faccia della coerenza”.

La polemica delle femministe

Quando poi nel 2009, due anni dopo quell’intervista, l’amministrazione capitolina decise di inserire un concerto dell’allora 71enne Franco Califano all’interno di una rassegna dedicata all’8 marzo, la giornata internazionale della donna, le femministe s’infuriarono. Accusando il Califfo di essere un maschilista, un misogino, un utilizzatore della femmina a puro scopo di sesso (nelle interviste raccontava di essere stato in tutto con 1500 donne e si vantò delle sue tante conquiste anche in libri come “Il cuore nel sesso” e “Il Calisutra”). Alcune esponenti donne del centrosinistra di allora dichiararono: “Con forza affermiamo la distanza siderale da questo evento che ci appartiene offende la dignità di tutte le donne”. Era spregiudicato, Califano. Ma allo stesso tempo anche estremamente romantico: “L’amici intorno a me, me chiedono de te / tanto pe’ fa ‘na cosa / saluto e scappo via”, cantava con il cuore spezzato in “Ma che serata è”, una delle canzoni del suo primo album “’N bastardo venuto dar sud”, nel 1972. Ruvido, ma capace di una dolcezza incredibile: “Se mi dici che ti manco anch’io / ti raggiungo e addio passato mio”, sussurrava appena nei versi di “Primo di settembre”, forse la più bella tra le sue canzoni meno note, inclusa in “Secondo me, l’amore…” del 1975. Le donne le usava? Forse. Ma le amava, anche. E a volte quello ad uscirne con le ossa rotte era lui: “Una donna innamorata anche quella più pulita / prima o poi le corna te le fa / tanto vale andare avanti e trattare con i guanti / solo questa libertà”, cantava in un’altra delle sue canzoni-manifesto, “La mia libertà”.

Un precursore?

Che poi è tutto relativo. Pensate all’incipit, clamoroso, della stessa “Secondo me, l’amore…”. Era il 1975 e quel “N’ho conosciute tante de mignotte / ma te lo giuro tu, le freghi tutte” suonava in realtà tutt’altro che maschilista: smascherava, piuttosto, il moralismo cattolico e democristiano della vita matrimoniale, tratteggiando il ritratto di una donna libidinosa. Non usata, non oggetto del piacere, ma dominatrice, padrona: “Dopo che hai detto ‘sì’, te sei concessa / senza aspettà la fine della messa / te venne ‘na libbidine ‘mprovvisa / e te facesti fa fori la chiesa / la prima vorta ‘npiedi, sotto a’r vento / te feci male e tu? Manco ‘n lamento / dicesti ‘m’han parlato de dolore’ / ma che sarà quanno verà er piacere?’ / da allora armeno tre, sera e matina / nun sei seconda manco a Messalina / come me sdrajo, zac, me zompi addosso / e a vorte pe’ sarvamme, dormo ar cesso”. Un precursore di certe tematiche che sarebbero state sdoganate, nella società e dunque anche nelle canzoni, solamente molti anni dopo? “Nun ce vedevo tanto ero partito / verso un traguardo fatto de peccato / ma quano je 'nfilai la mano sotto / co’ la violenza che c′ha solo 'n matto / restai de ghiaccio ′n mezzo a quelle cosce / la mano mia acchiappò du’ cose mosce / mai viste così grosse 'n vita mia / du’ palle come li mortacci sua”: i versi sono quelli del testo di “Avventura con un travestito”. Califano la scrisse nel 1979.

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